La bottega instabile in collaborazione con il Kutir, è lieta di ospitare
Vicine DiStanze
di Rachel Morellet
a cura di Pierluca Nardoni.
OPENING sabato 25 Gennaio | h: 18.00 > 24.00
Domenica 26 Gennaio | h: 15.00 > 20.00
Se volessimo assegnare un’etichetta al lavoro di Rachel Morellet (1975), potremmo in prima battuta richiamarci al termine fin troppo diffuso di “concettuale”, magari con l’aggiunta del prefisso “post”, per intendere la rilettura, avvenuta una ventina di anni fa, di quella tipica congiuntura sessantottesca. Basterà gettare uno sguardo alle opere in mostra per scorgere l’uso esclusivo della fotografia e del video, due tra gli strumenti privilegiati per ridurre l’ingombro fisico dell’oggetto artistico e fornire di un involucro adeguato le idee più ingegnose. Va registrato, tuttavia, uno scarto sensibile tra le operazioni della Morellet e i risultati raggiunti dagli autori del cosiddetto post-concettualismo degli anni Novanta: mentre questi ultimi restavano fedeli a un certo disinteresse nei confronti della resa formale dell’opera (si pensi ai lavori della Scuola di Piombino), l’artista francese reintroduce le giuste dosi di seduzione estetica, bilanciando sapientemente un misurato lirismo e una calibrata ironia. D’altronde, già la sede scelta per Vicine DiStanze è un contenitore tutt’altro che asettico. Si tratta di una bottega di artigianato arredata come un piccolo appartamento domestico e accogliente, ricavata da un antico laboratorio tessile. Appena entrati in questo “luogo d’affezione”, ci imbattiamo in Happy hours, un trittico di fotografie di grandi dimensioni che evoca subito la memoria delle pale d’altare medievali. Il soggetto ritratto parrebbe perciò provocatorio, trattandosi, a prima vista, di una danza di ovuli e spermatozoi, ma risulta addirittura irriverente quando ci accorgiamo di avere di fronte null’altro che cipolline e capperi in salamoia. Siamo allora a una sacralizzazione del banale, ottenuta grazie a un’immagine suadente degna degli spot pubblicitari più persuasivi, capace di innescare un divertente corto circuito di significati (anche tenendo conto del gioco di parole del titolo). Pochi passi più in là, all’interno di una vecchia credenza, potremo sbirciare un video quasi di nascosto, attraverso un foro praticato nel legno. Il tema del voyeurismo è ben testimoniato nell’arte dell’ultimo secolo (si veda il celebre Étant donnés… di Marcel Duchamp) e nel caso in esame i primi secondi di Venere e Amore confermano l’atmosfera da peep show, lasciando intravedere il corpo nudo di una donna. Le scene scorrono interrotte da frequenti pause, ma ben presto ci avvediamo che il tema non è così scabroso, perché il corpo femminile è oggetto delle attenzioni di un neonato impegnato nel tentativo ingenuo e giocoso di ripercorrere la sua porta d’accesso al mondo. Anche in quest’occasione, l’arte della Morellet si dimostra sottilmente ambigua, in bilico tra la mera ricognizione del dato reale e un’impaginazione accurata, in grado di mescolare il sapore amatoriale del filmato di famiglia con la ricercatezza di quelle brusche interruzioni che donano alle immagini un impatto quasi subliminale. Il percorso espositivo continua fuori dalla bottega, imboccando una stradina poco distante; sulla soglia di un’abitazione privata, sede di un corso di Yoga, seguiremo la proiezione dei momenti salienti di Wedding performance. Si tratta, come recita il titolo, di un’azione performativa, opportunamente documentata da un video, come le analoghe esperienze degli anni Sessanta e Settanta. Ma la differenza rispetto a quelle azioni pionieristiche è tangibile: mentre le imprese neoavanguardiste erano volte a presentare dei comportamenti spesso reiterati e ossessivi, alla ricerca di rapporti autentici con il proprio corpo e con le circostanze spazio-temporali, qui si assiste a una performance più artificiosa, diciamo “alterata”, il cui video è persino sottoposto a un minuzioso lavoro di montaggio; il tutto perfettamente in linea con i nostri tempi fittamente tramati di realtà e virtualità. La Morellet, infatti, mette in scena un finto matrimonio e progetta per i due sposini degli abiti in Aplix®, un materiale del tutto simile al Velcro®. Le conseguenze sono rocambolesche: i due performer sperimentano l’appiccicosa tenacia dei loro indumenti, trasformando il rituale taglio della torta in una zuffa comica degna di Stanlio e Ollio. Wedding performance si presenta dunque come una valida sintesi delle peculiarità della Morellet, sempre in grado di conferire al suo concettualismo la giusta dose di fisicità e di ironia e di presentare le sue trovate dietro il velo affascinante di un’“autentica finzione”.
Pierluca Nardoni
Contatti:
http:// www.rachelmorellet.com/
http:// labottegainstabile.blogspot .it/
Info:
labottegainstabile@gmail.c om
info@kutir.it
Tel: 051 8493682
+39 3406652287
Vicine DiStanze
di Rachel Morellet
a cura di Pierluca Nardoni.
OPENING sabato 25 Gennaio | h: 18.00 > 24.00
Domenica 26 Gennaio | h: 15.00 > 20.00
Se volessimo assegnare un’etichetta al lavoro di Rachel Morellet (1975), potremmo in prima battuta richiamarci al termine fin troppo diffuso di “concettuale”, magari con l’aggiunta del prefisso “post”, per intendere la rilettura, avvenuta una ventina di anni fa, di quella tipica congiuntura sessantottesca. Basterà gettare uno sguardo alle opere in mostra per scorgere l’uso esclusivo della fotografia e del video, due tra gli strumenti privilegiati per ridurre l’ingombro fisico dell’oggetto artistico e fornire di un involucro adeguato le idee più ingegnose. Va registrato, tuttavia, uno scarto sensibile tra le operazioni della Morellet e i risultati raggiunti dagli autori del cosiddetto post-concettualismo degli anni Novanta: mentre questi ultimi restavano fedeli a un certo disinteresse nei confronti della resa formale dell’opera (si pensi ai lavori della Scuola di Piombino), l’artista francese reintroduce le giuste dosi di seduzione estetica, bilanciando sapientemente un misurato lirismo e una calibrata ironia. D’altronde, già la sede scelta per Vicine DiStanze è un contenitore tutt’altro che asettico. Si tratta di una bottega di artigianato arredata come un piccolo appartamento domestico e accogliente, ricavata da un antico laboratorio tessile. Appena entrati in questo “luogo d’affezione”, ci imbattiamo in Happy hours, un trittico di fotografie di grandi dimensioni che evoca subito la memoria delle pale d’altare medievali. Il soggetto ritratto parrebbe perciò provocatorio, trattandosi, a prima vista, di una danza di ovuli e spermatozoi, ma risulta addirittura irriverente quando ci accorgiamo di avere di fronte null’altro che cipolline e capperi in salamoia. Siamo allora a una sacralizzazione del banale, ottenuta grazie a un’immagine suadente degna degli spot pubblicitari più persuasivi, capace di innescare un divertente corto circuito di significati (anche tenendo conto del gioco di parole del titolo). Pochi passi più in là, all’interno di una vecchia credenza, potremo sbirciare un video quasi di nascosto, attraverso un foro praticato nel legno. Il tema del voyeurismo è ben testimoniato nell’arte dell’ultimo secolo (si veda il celebre Étant donnés… di Marcel Duchamp) e nel caso in esame i primi secondi di Venere e Amore confermano l’atmosfera da peep show, lasciando intravedere il corpo nudo di una donna. Le scene scorrono interrotte da frequenti pause, ma ben presto ci avvediamo che il tema non è così scabroso, perché il corpo femminile è oggetto delle attenzioni di un neonato impegnato nel tentativo ingenuo e giocoso di ripercorrere la sua porta d’accesso al mondo. Anche in quest’occasione, l’arte della Morellet si dimostra sottilmente ambigua, in bilico tra la mera ricognizione del dato reale e un’impaginazione accurata, in grado di mescolare il sapore amatoriale del filmato di famiglia con la ricercatezza di quelle brusche interruzioni che donano alle immagini un impatto quasi subliminale. Il percorso espositivo continua fuori dalla bottega, imboccando una stradina poco distante; sulla soglia di un’abitazione privata, sede di un corso di Yoga, seguiremo la proiezione dei momenti salienti di Wedding performance. Si tratta, come recita il titolo, di un’azione performativa, opportunamente documentata da un video, come le analoghe esperienze degli anni Sessanta e Settanta. Ma la differenza rispetto a quelle azioni pionieristiche è tangibile: mentre le imprese neoavanguardiste erano volte a presentare dei comportamenti spesso reiterati e ossessivi, alla ricerca di rapporti autentici con il proprio corpo e con le circostanze spazio-temporali, qui si assiste a una performance più artificiosa, diciamo “alterata”, il cui video è persino sottoposto a un minuzioso lavoro di montaggio; il tutto perfettamente in linea con i nostri tempi fittamente tramati di realtà e virtualità. La Morellet, infatti, mette in scena un finto matrimonio e progetta per i due sposini degli abiti in Aplix®, un materiale del tutto simile al Velcro®. Le conseguenze sono rocambolesche: i due performer sperimentano l’appiccicosa tenacia dei loro indumenti, trasformando il rituale taglio della torta in una zuffa comica degna di Stanlio e Ollio. Wedding performance si presenta dunque come una valida sintesi delle peculiarità della Morellet, sempre in grado di conferire al suo concettualismo la giusta dose di fisicità e di ironia e di presentare le sue trovate dietro il velo affascinante di un’“autentica finzione”.
Pierluca Nardoni
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